teccopisoloso

«Ottima assistenza dalla “fedele Giuseppina”, gentile e credo intelligente dai medici e analisti succeduti al m.co curante, partito di colpo per l’Egitto-Luxor indi Somalia: ivi, credo, assunto, dal servizio sanitario di quella felice repubblica, certo meno abulica e schizofrenica e teccopisolosa della nostra» (Lettere a Citati, p. 71).

Persino nell’ambito di una lettera che esordisce come un puntiglioso referto medico – nell’estate del 1964 lo aveva colto una prostrante infermità attribuibile a «un’influenza a-tipica (cioè di ceppo ignoto asio-afroide tra giallo ed eburneo)» o a «un avvelenamento da cibo deteriorato» o, infine, a «una febbre tifoide non avvertita» (Lettere a Citati, p. 71) –, Gadda non rinuncia a un irresistibile guizzo ironico: e, quasi per scusarsi di avere inflitto all’amico un tedioso resoconto delle sue condizioni di salute e dei rimedi messi in campo («indigesti antibiòtici»), gli regala un’invenzione lessicale (da tecco ‘gonfio per il cibo ingerito in quantità eccessiva’, GDLI, e pisoloso, neoformazione suffissale) che è insieme un clin d’oeil, giacché rinvia sotterraneamente al Pasticciaccio. Nel romanzo, infatti, fra le ingiurie che la bella Lavinia sibila a Camilla, figura la medesima voce: «“Sei troppo racchia, sei, co quela faccia da patata che t’aritrovi. E troppo tecca, sei: co nemmeno queli quattro che ciai da parte me lo volessi pijà?”» (QP 267). Non occorrerà dunque, come ho fatto nella Nota al testo (QP 354-55), ipotizzare un refuso per trecca, ‘donna rozza dai modi triviali’: a Camilla, «una frullona di medio taglio, di pelle grigio pallida che pareva carta unta: con il volto piatto un po’ a patata, gli occhi piccoli, bigi bigi, annegati nel ridondare della sugna» (QP 247; → frullona), ben si attaglia l’accezione indicata dal GDLI. Non tutto è chiarito, comunque: come mai Dell’Arco, che ha magistralmente assistito Gadda nella «risciacquatura nel Tevere» dei suoi «cenci» (cito da una lettera del 15 gennaio 1949, in Toti Scialoja, Opere 1955-1963, a cura di Fabrizio D’Amico, Ginevra-Milano, Galleria dello Scudo-Skira, 1999, p. 145), ha avallato la presenza nel parlato di Lavinia di un termine estraneo al romanesco (cfr. Luigi Matt, in «Quer pasticciaccio brutto de via Merulana». Glossario romanesco, Roma, Aracne, 2012, pp. 160-61)? E per quale via tale voce, toscana ma non fiorentina (è schedata fra i Lucchesismi. Manualetto per lo studio del vernacolo in relazione con la lingua ad uso delle scuole della provincia di Lucca di Giovanni Giannini e Ildefonso Nieri, Livorno, Giusti, 1917, e nella variante tecchio ‘grosso, badiale’ da Pietro Fanfani, Vocabolario dell’uso toscano, Firenze, Barbèra, 1863) è giunta a Gadda? Non c’è da meravigliarsi, in fondo: ci siamo abituati, lavorando su Gadda, a considerare fragile ed effimera ogni nostra certezza.

giorgio pinotti