Piva/piva
«Col dottor Piva, che, nei casi più semplici, “el comandava l’oli d’oliva” 58» (L’A 214); nota 58: «“El comandava”, detto del medico, (dial. lomb.) = prescriveva. Il “dottore di famiglia” con la sua farmacopea di pillole, polveri, beveroni, sciroppi, “polentine” e “linose” assortite, è istituzione secolare. Jeri (1930-1940) s’è fatto ormonico e opoterapico e vitaminico: e consiglia, ascoltatissimo, Alto Adige e bagni di sole» (L’A 229).
È l’ultima apparizione dell’antonomastico medico di famiglia che punteggia le pagine di vari ‘disegni milanesi’ dell’Adalgisa. Introdotto in Quando il Girolamo ha smesso…: «Donna Elsa pensava a “una cura jodica”, e al dottor Piva, “il nostro dottore”»; «Donna Elsa, con la consueta bontà e con l’impeto consueto, corse dal dottor Piva … Il “valente sanitario” … si limitò a rispondere secco secco: “Vegni mì. Lée che la me spèta in cà: che vegni sü inkòeu. Ai tre ôor” … Quando il Piva, “ai tre ôor”, ebbe visitata la ragazza, disse: “Ho capìi....”» (L’A 46, 47-48). Poi presente anche in Quattro figlie ebbe e ciascuna regina: «il suo sistema gastroenterico in genere [della vecchia domestica dei de’ Marpioni], affetto com’esso risultò da una grave forma di malinconite “che risaliva agli anni dell’infanzia”: così il dottor Piva» (93); «il “piccolo” Gilberto Gaudenzio … ammalò … Ma il dottor Piva lo salvò» (107). Il suo ritorno in Un «concerto» di centoventi professori è ormai un incontro con un personaggio noto, come per un appuntamento col lettore, puntualmente «ai tre ôor» (‘alle tre del pomeriggio’): «La sua sciatica [del nobile Gian Maria Caviggioni] sembrava peggiorare ogni dì più, non ostante le cure e la pazienza del dottor Piva, accorso “ai tre oor”, secondo il solito, e così anche quel sabato» (186); «quell’altro, il consulente del famoso gambero, sbaragliato dal dottor Piva in un famoso controconsulto» (210); «E la conclusione di tutto sto lavorare è che i funerali avranno luogo giovedì 27, alle ore 15 precise, “ai tre oor”, come direbbe il dottor Piva» (213). Per finire con la citazione da cui siamo partiti, non a caso ultima nel sistema del libro, in quanto il “dottore di famiglia” definitivamente vi è promosso, al sesto posto, tra le tredici modalità («con… con… con…») che caratterizzano – vere istituzioni sociali, fattori distintivi del ceto – la borghesia milanese, e la nota può registrarlo addirittura come «istituzione secolare».
Questo totem della tribù milanese che si accampa a protagonista collettiva del libro era già stato battezzato con quel nome nel Fulmine sul 220 (da cui derivano sia il Girolamo che il Concerto), e da lì persiste stabilmente, tanto che il suo primo approdo alle stampe precede L’Adalgisa: lo troviamo infatti in Mercato di frutta e verdura, un pezzo giornalistico pubblicato nel 1935 sull’«Ambrosiano» e poi raccolto in Le meraviglie d’Italia nel 1939: «Da fuori d’Italia viene pure qualche cosa, le susine secche di Bosnia e di Provenza, o di California: che il dottor Piva, con quella sua parola e que’ suoi occhi pieni di devota e quasi giulebbosa sollecitudine, suol raccomandare ogni sabato alla marchesa Stemègna, che lo sta duramente ad ascoltare» (Opere III, 48-49). (Sarà da notare tra parentesi, quanto alla marchesa, che a illustrazione della battuta in cui l’Adalgisa, nel ‘disegno’ eponimo, epiteta la sua persecutrice, donna Eleonora Vigoni, di «brutta … strega … invidiosa … stemègna….» [L’A 284], la nota 23 si premura di spiegare: «“Stemègna” (dial. mil.): avaro, sordido. È sostantivo, e indeclinabile» [324]. Davvero tutto si tiene, nel sistema del Gadda milanese).
Resta da chiedersi perché, tra i tanti cognomi milanesi o similmilanesi disponibili, fra l’altro sciorinati a decine nei disegni stessi dell’Adalgisa («i Lattuada, i Perego, i Caviggioni, i Trabattoni, i Berlusconi, i Bambergi, i Dadda, i Frigerio, i Tremolada, i Cormanni, i Ghezzi, i Gnocchi, i Gnecchi, i Recalcati, i Ghiringhelli, i Cavenaghi, i Pini, i Tantardini, i Comolli, i Consonni, i Repossi, i Freguglia», L’A 213), e stante la non gratuità di qualunque scelta lessicale gaddiana anche nell’onomastica, al tanto istituzionale dottore sia toccato di chiamarsi proprio Piva. Che sia cognome diffusissimo a Milano e in tutta l’Italia settentrionale sarebbe stato semmai un deterrente all’uso. Evidentemente Gadda si è servito della duplice possibilità allusiva che gli veniva da una parte dal nome comune comunissimo della ‘piva’, che ricorre precisamente nel Concerto, e con tanto di nota dedicata: «La loro prestanza di rinoceronti era fondata su dialettali ruggiti, barborigmi ingiuriosi che parevano estrarre dalle trippe, o anzi addirittura dalla vescica, tumefatta qual roboante sampogna, ossia piva» (L’A, 195), e nota 16: «“Sampogna” per cornamusa o piva, nell’uso meridionale» (220). Da cui il sospetto che sottotraccia e per proprietà associativa da quel punto del testo in poi (e retrospettivamente) anche al maiuscolo Piva resti appiccicata la qualità di “roboante sampogna”, di sonoro fiato di cornamusa, con l’aggravante di un’altra implicata ‘qualità’, la noia della ripetizione, a norma della definizione che del suono della cornamusa offre il Cherubini nel suo vocabolario milanese (proprio alla voce piva): «il continuo ronzio di un’armonia grave e monotona». Ma ancor più, dall’altra parte, deve aver agito la nota filastrocca milanese e lombarda (di particolare applicazione natalizia, quando gli zampognari si aggiravano nella città suonando ripetitive melodie pastorali con le loro ‘pive’) che appunto recita «Piva piva l’oli d’uliva / piva piva l’oli d’ulà. / L’è ’l Bambin che porta i belé / l’è la mama che spènd i dané» (i «belé» sono i ‘giocattoli’). Ecco perché alle orecchie di chi era stato bambino a Milano il dottor Piva finiva col “comandare”, in rima, «“l’oli d’oliva”»: era l’inevitabile archetipo testuale a comandarlo. Controprova lampante dell’efficacia della coppia mnemonica piva-oliva: nella Cognizione del dolore per procurare le cure necessarie alla mamma di Gonzalo il medico gli consiglia di portarla «dal dottor Balánzas … o dal dottor Oliva, giusto…. meglio ancora!» (CdD 85): ma in realtà è ancora lui, il Piva, in entanglement.
Trascorsi pochi anni dalla fine della guerra (mentre L’Adalgisa era uscita nel pieno del disastro, ai primi del 1944), nel racconto del 1947 Interno romano 1941, poi raccolto nelle Novelle dal Ducato in fiamme col titolo Socer generque, il cognome ricompare. Ma stavolta non è più vittima del bonariamente malizioso clin d’oeil gaddiano il tutto sommato innocente dottore: ora è la «signora Piva» a ostentarlo, una “enunciante” e “gracchiante” milanese entusiasta del Duce («Da due giorni era stata dichiarata la guerra alla Grecia: era quello il motivo per cui la signora Piva lo trovava un genio», AG 227): la «roboante sampogna, ossia piva» è tornata a estrarre dalle trippe, sinistramente, altri e non innocenti «barborigmi ingiuriosi».
claudio vela