macaronì

«Io non voglio vantarmi di essere più intelligente degli altri “macaronì” – perché sono stato a Celle da te instradato alla tua lettura» (Lettere a Betti, p. 66, 25 agosto 1922).

Durante la prigionia a Celle Lager, tra il marzo e il dicembre 1918, Gadda si rivela a sé stesso come potenziale scrittore anche grazie al confronto con i già culturalmente consapevoli compagni di baracca Ugo Betti e Bonaventura Tecchi. Nel piccolo gruppo si era creata – testimone il Giornale di guerra e di prigionia – una consuetudine di scambio intellettuale, di lettura e discussione dei testi di ciascuno, di lessico famigliare. La parola-manifesto di questa complicità vocabolaristica è sofeghino (→ sofeghino) che, nella parlata parmigiana di Betti, indica scherzosamente i tentativi letterari. La prima apparizione del termine viene rievocata in un tardo testo memoriale di Tecchi, Baracca 15C (Milano, Bompiani, 1961, pp. 62-63): «E quando un giorno un ingegnere, uno studente d’ingegneria al Politecnico di Milano, che si chiamava Carlo Emilio Gadda e che bazzicava per lo più con matematici o futuri ingegneri, osò presentare a Betti un suo quaderno, scritto lì, alla baracca 15, Betti respinse, in parte scherzando in parte sul serio, il manoscritto qualificandolo col nome, credo emiliano, di “soffeghino”, cioè di cosa che pesa e che soffoca». Della designazione si impossessa subito Gadda, che la impiega nel Giornale ma anche, dopo la guerra, in una lettera allo stesso Betti del 7 ottobre 1920: «Negli ultimi mesi ho voluto scrivere racconti e sofeghini per imparare questo mestiere» (citata da Paola Italia nella sua Nota al testo, GGP 610).
Un’altra parola alonata delle memorie di prigionia, ma meno esposta, è macaronì, che non compare entro l’opera edita di Gadda ma, oltre che nella lettera a Betti, solo in un segmento, poi espunto, della prima minuta del saggio I viaggi, la morte (1927). Dove Gadda confessa di essere stato così catturato dal poemetto Le voyage di Baudelaire da averne tentato una imitazione: «Da buon macaronì io sono rimasto colpito dalla parte meno importante del poemetto (rispetto al tema base) ma assai bella poeticamente – come espressione. Sotto la suggestione di questi versi talora meravigliosi ho schizzato nel 1922 un accenno di imitazione». In entrambe le attestazioni, il vocabolo non pertiene alla ricca area semantica del macaronico/pastiche/barocco che esploderà, in effetti solo qualche anno più tardi – scatenata dal saggio di Contini Carlo Emilio Gadda o del pastiche (1934). Va piuttosto ricondotto (come l’accento, soltanto tonico, ribadisce) alla voce francese che indica, per metonimia spregiativa, gli italiani (si veda per esempio il Trésor de la Langue Française informatisé, consultabile online: http://atilf.atilf.fr/) e che probabilmente circolava a Celle Lager – dove, come ricorda Tecchi, la lingua più spesso impiegata nei contatti coi tedeschi era il francese (Baracca 15C, cit., p. 72). Nell’impiego di Gadda, il senso si carica dei caratteri accessori di ingenuità letteraria o dabbenaggine: quei tratti che proprio nei mesi di prigionia il futuro scrittore va temperando.

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