gervasio-protasio

«Un cornuto in famiglia ci voleva pure, un giorno o l’altro, “coi tempi che corrono!”. Ed eccolo là, nell’orror sacro della sua solitudine, deliziato e pepettato la glossa, come un crisòstomo, dai birichini ravanelli delle nostre parti; aureolato, come un gervasio-protasio la nostranona cucurbita, d’un nimbo di carta d’oro di gianduia…. » (L’A 242-243).

Il Nobilis Homo Gian Maria Caviggioni, estimatore dei «birichini ravanelli delle nostre parti» dal sapore deciso e piccante, da cui infatti la sua lingua è deliziata e «pepettata» (parafrasabile oltre il senso letterale, spiega Paola Italia nel Glossario, come ‘sollecitata nell’eloquenza oratoria’, visto il paragone con «un crisòstomo», un san Giovanni Crisostomo, l’oratore per antonomasia, ‘dalla bocca d’oro’ a norma di etimo), non è affatto il «cornuto» di famiglia, perché, diversamente da come finge di credere la diceria collettiva della milanese “tribù musogonica”, nessuna relazione sentimentale intercorre tra la sua giovane moglie Elsa e l’altrettanto giovane nipote Valerio, nonostante la loro comune partecipazione al concerto al Conservatorio di Milano dalla quale nasce il pettegolezzo, che è palesemente un «gambero», un equivoco del tutto erroneo («Talchè il gambero, come sempre i suoi confratelli, fu costituito in totem: quindi in dogma», L’A 242). Ma l’equivoco fornisce lo spunto per isolare la figura del Caviggioni in una luce di ironico fraintendimento che lo promuove a identificabile icona: da bravo «cornuto» si staglia in una solitudine da «orror sacro» (sintagma pregnante, carico di riferimenti letterari, dalla Tebaide di Stazio alla traduzione dell’Iliade di Vincenzo Monti all’Alcyone dannunziano), con gli attributi caratterizzanti che gli competono (risibilmente), messi in evidenza dalla concentrata preziosità sintattica del doppio accusativo alla greca che ne sottolinea la condizione di crisòstomo – non eloquente per cultura, ma come conseguenza della delizia pepata dei ravanelli «delle nostre parti» (ripresa di un motivo che collega questo passo di Al Parco, in una sera di maggio a un altro disegno dell’Adalgisa, Quando il Girolamo ha smesso…, con la domestica «delle nostre parti», 42, 44 e 49, quando il nobile Gian Maria di cognome fa ancora Cavenaghi) – e poi di gervasio-protasio, ancora e sempre “delle nostre parti” quanto ad attinenza locale della «cucurbita» (la ‘zucca’, cioè la testa) «nostranona» (dal milanese nostranón, ‘casereccio’, cfr. Glossario s. v. nostranone e anche s. v. cucurbita). La coppia dei santi martiri Gervasio e Protasio, qui conglobati in doppia unità e sostantivizzati ancora per antonomasia, santi milanesi – pure loro “delle nostre parti” – in quanto patroni della città (le loro reliquie secondo l’agiografia furono reperite da sant’Ambrogio stesso nel 398), presta al Gian Maria, oltre a perseguìte vibrazioni onomastiche (il significante un tantino buffo anche per la rima e l’inevitabile rinvio mentale al Gervaso manzoniano, «quel povero mezzo scemo di Gervaso»), l’immagine iconografica tipica di ogni santo, l’aureola o «nimbo» (anche nel Pasticciaccio troviamo «Due sicuramente santi […] e nimbati la cococcia», QP 216): solo che qui il prezioso nimbo aurato di tante rappresentazioni artistiche – pertinentissime tra tutte, e forse traccia diretta per Gadda, quelle del mosaico su fondo oro di Gesù Cristo benedicente in trono fra due angeli e i santi Gervasio e Protasio che occupa la semicalotta absidale proprio della Basilica di Sant’Ambrogio a Milano – si adegua alla «nostranona cucurbita» della testa lombarda del Nobilis Homo aureolandola sì, ma degradato al luccicante similoro della «carta d’oro di gianduia», dato che il Nobilis Homo, per quanto ingegnere, gianduia produce e commercia («benchè i casi della vita lo avessero sospinto verso il cioccolatte», L’A 147), debitamente incartati: una santità di cioccolato.

claudio vela