Fava
«Dopo le grida della signora Menegazzi, i due Bottafavi di sopra, marito e moglie, erano usciti sulle scale in ciabatte gridando pure loro, un bel duetto nuziale baritono-soprano: “Al ladro! Al ladro!” Esigevano ora adeguato riconoscimento del loro coraggio, della loro prontezza di spirito. Il Bottafavi, anzi, con un grosso pistolone a revolver: che volle esibire al commissario, quindi agli astanti: le donne si fecero un po’ indietro: “Mbè, adesso nun ce spari a noi”: i ragazzini allungarono il collo, ammiratissimi. Ne ebbero, da quel momento in poi, una grande opinione, der sor Botta e Fava, come dicevano» (QP 34-35).
Nel ripostiglio affollatissimo di Gadda trovano posto, accanto alle varianti formali (i mitizzati doppioni, triploni e quadruploni), alle escursioni lessicali nel tempo, nello spazio e nei registri, anche le risorse, non meno avventurose, della polisemia. La direzione non è ovvia, perché sfruttare nella sua massima tensione l’arco semantico delle parole è spesso la scelta non di chi allarga e moltiplica, ma di chi, entro le risorse del vocabolario, seleziona e circoscrive.
Un caso culmine di fluidità semantica è il sostantivo fava, sparpagliato con larghezza negli scritti gaddiani, con aree di massimo addensamento in Eros e Priapo e nel Primo libro delle Favole. Parola breve dalle sillabe quasi gemelle (la seconda doppia la prima, da cui diverge per la sonorizzazione della consonante), fava si rivela prima di tutto un oggetto foneticamente duttile. E Gadda, nomenclatore furioso, ne esplode le potenzialità (s)combinatorie. I percorsi, dettati solo all’apparenza dal puro piacere acustico, risultano in catene paronomastico-allitterative che sono, in realtà, semanticamente sovraccariche. Esemplare la serie in apertura della Nota bibliografica al Primo libro delle Favole, che chiama in causa, per forza di suoni, Petrarca e D’Annunzio, mentre le parole stesse che li evocano ne irridono la sacralità letteraria: «favole ciò è picciole fave o vero minimissime favuzze o faville d’un foco» (PLF 65). Gli stessi suoni dilagano nelle pagine successive, con nuove proliferazioni: «nolea di fave né di favole» (PLF 71), «futuri favagelli» (PLF 75).
Ai giochi paronomastici si affiancano, non meno produttivi, quelli onomastici, propiziati forse da un nome reale certo ben presente a Gadda, quello di Carlo Favagrossa, Commissario generale per la produzione bellica nel governo Mussolini, a partire dal 1939. Nell’invenzione dei cognomi, la scatenata, ma di fondo positiva, assimilazione fava/favola cede il posto allo scoperto sovrasenso di fava come organo sessuale. Ai coniugi Bottafavi/Botta e Fava si affiancano idealmente altri personaggi, quali «il vecchio marchese Fava-Leccaris» (RI 1129); e il poeta «la Fava» (PLF 45), travestimento, chiarito a posteriori dall’autore stesso, di Mario La Cava, romanziere di poca fortuna e, secondo Gadda, vitando seccatore (si veda Il primo libro delle Favole, a cura di Claudio Vela, Milano, Mondadori, 1990, p. 177).
Ancora diverso l’uso della chiave sessuale in Eros e Priapo, dove «Fava» non è semplicemente uno dei mille, ingiuriosi epiteti per Mussolini, ma il punto d’attacco di esplosioni semantiche tra le più sfrenate: «Udito ’l Fava in balcone eccelso a berciare: “Ch’io son Fava Unica e farò immensa l’Italia” (mentreché i sua ladri e ’l suo genero la depredavano) e la loro anima affattucchiata, con le vocine loro, a ridire da basso: “Che ’l Fava è Fava Unica e farà immensa l’Italia”» (EP 115). In chiusura di cerchio, la neoconiazione favante in coppia col latinismo favente irride la romanità farlocca delle parole del ventennio: «dopo aver cantato a gloria le gran laudi del Fava, Favente Genio e Favante Tutore della Italia» (EP 98).
La convivenza, in una parola il cui primo designatum è un alimento, di due macro-aree semantiche polari, che rimandano rispettivamente alla scrittura (fava come ‘favola’) e all’oscenità (fava come ‘fallo’, che si iperbolizza nella figura del duce) non è isolata. Coinvolge anzi un altro vocabolo tra i più stratificati dell’opera gaddiana, macarone – o maccherone. Che, nel saggio Fatto personale … o quasi (1947) è uno dei nomi del pastiche (VM 495) ovvero, per metonimia, di Gadda stesso che lo pratica; ma anche del duce, «maccherone fottuto di Predappio» (VM 498). L’enantiosemia si apprezza dunque guardando non alla singola pagina, ma alla rete di richiami tra opera e opera. E, solo allora, sul gioco verbale si distende l’ombra di una proiezione perturbante.
mariarosa bricchi