caro

«Fumava sigarette Fumag col bocchino d’oro, massicce. Idolatrava il Pirgo, e i figli e la figlia grande del Pirgo, che soleva chiamare “la contessa”, molto convinto della cosa. Della vittoria era certo. “Vinceremo!”, s’era fatto pirografare sul didietro, èmulo delle cartoline postali. Quando in saccoccia l’ebbimo, disse: “Abbiamo vinto!” Nello stesso modo che dopo Stalingrado l’Adolfo. Era un normale, il tipo del normale: dirimpetto a me, anòmalo. Amava ardentemente, per quanto normalmente, la patria: la cara patria: sì» (VM 30).

Se la retorica dei buoni sentimenti è «il relitto, il guscio voto, d’una storia bugiarda», l’insopprimibile urgenza di reagire alla menzogna, alla «falsità frusta o melensa d’alcuni ideogrammi regolamentari» (VM 22, e si noti che Come lavoro, uscito su «Paragone» nel 1950, è coevo ai fallimentari tentativi di pubblicare un capitolo della «priapologia»: cfr. EP 359-60) giustificherà il sarcasmo incendiario che qui ispira il ritratto di un «gentiluomo campagnardo», fedelissimo del Kuce, nel quale è riconoscibile il cognato di Gadda, Paolo Ambrosi, non senza riverberi – come nota giustamente Mariarosa Bricchi – di un altro non meno ottuso e inetto «gentilhomme campagnard», «el scior Pellegatta», alter ego di Francesco Ippolito Gadda (VM 317-18). Ma giustificherà, soprattutto, la torsione che consegna a «un tono novo, a un timbro perverso» (VM 25) un aggettivo fra i più palpitanti e languidi della nostra tradizione (si pensi per esempio a Parini, Il mattino, vv. 805-810: «… ove tu, assai più vago / E leggiadro a vederse in bianca spoglia / Scenderai quindi a poco a bear gli occhi / De la cara tua patria …»).
Un impiego spastico, quello di caro, ‘amato teneramente, bene amato, diletto’, che risale alla fine degli anni Venti, al 1929 per la precisione, allorché Gadda elabora Villa in Brianza, dove la «dissoluzione-rinnovazione» (VM 25) del termine esonda, incenerendo nel ridicolo, grazie ai toni ironico-umoristici sterniani già sperimentati nella Madonna dei Filosofi, la natura fantasiosa e spropositata del padre, le sue smanie salutiste e filantropiche, la sua incrollabile fede brianzòfila: «le “Ferrovie Nord Milano” … disservivano, giraffe benpensanti, la cara ed avita Brianza … e quel viaggio era un sogno d’una notte di mezza estate, carezzato l’orecchio dalla musica de’ più cari nomi lombardi, in ago e in ate»  (19); «Spauriti e mal vestiti i tre nuovi figlioletti del Signor Francesco … sentivano la Marchesana arrabattarsi per tutta casa, far delle scene ai cari villici perché il prezzemolo, benché fosse brianzolo, era secco come la paglia, ai cari contadini, coabitanti odorosi e francescani nella casa del Marchese Francesco» (23-24); «“La Marietta fa la piscia in piedi”, è questo uno dei più cari ricordi d’infanzia di Carlo Emiliuccio» (25). Allorché il bersaglio è la madre, corresponsabile di quel processo di «incorporazione o consustanziazione narcissica dell’oggetto posseduto» diagnosticato anni dopo sulla scorta delle letture freudiane (EP 205) e dello strazio che si cela dietro «la insopportabile santità della famiglia» (VM 194), lo humour si fa tuttavia, di colpo, stridente e l’ironia illividisce: «La Marchesana, seconda moglie del Signor Francesco, in quella salubrità e in quella luce, col caro fiasco nel caro armadio, era proprio ne’ suoi regni» (VB 23); «Il signor Francesco, seguito dalla cara famiglia, saliva poi in casa» (22); «Le affettuose cure de’ genitori crescevano i cari figlioletti» (24).
Che l’irrisione del delirio georgòfilo di Francesco Ippolito colpisca insieme le mitologie pariniane che lo alimentavano è provato da espliciti rinvii: «Ma era un terreno magnifico, con una veduta splendida sull’Eupili, e si vedeva di là dal lago il paese dov’era l’antica villa de’ suoi» (16-17; e cfr. La vita rustica, vv. 33-36: «Colli beati e placidi / Che il vago Èupili mio / Cingete con dolcissimo / Insensibil pendio»); «Il signor Pelegatta si sentiva rinascere, respirava a pieni polmoni: i suoi figli, in quell’aria, sarebbero cresciuti vigorosi, felici» (17), «Veniva questa [la casa] ripulita dagli scorpioni e scolopendre, che la salubrità dell’aria c’è anche per loro»  (22; cfr. La salubrità dell’aria, vv.7-12: «Già nel polmon capace / Urta sé stesso e scende / Quest’etere vivace, / Che gli egri spiriti accende, / E le forze rintegra, / E l’animo rallegra»); «A Carlo Emiliuccio la sorte serbò, fra infinite altre grazie lombarde e perseveranzesche, anche le gutturazioni pleistoceniche degli idraulici di Erba Incino, che le trasmisero per suggestione alla lor pompa, le gutturazioni de’ villan vispi e sciolti sparsi per li ricolti, e tutta la dolce favella che irrora di allobroga e insubrica dolcezza tutto “lo dolce piano, – che da Vercelli a Marcabò dichina”» (26-27, e cfr. La salubrità dell’aria, vv. 52-54: «Celebrerò col verso / I villan vispi e sciolti / Sparsi per li ricolti»;  L’Innesto del vaiuolo, vv. 155-57: «… e di combatter tenta / La pietà vïolenta / Che a le Insubriche madri il core implica»; Il dono, vv. 1-5: «Queste che il fero Allobrogo / Note piene d’affanni / Incise col terribile / Odiator de’ tiranni / Pugnale …»). Le Odi pariniane offrivano del resto a Gadda – deciso a polverizzare la «edificazione semplificante» che il nobile lessico della tradizione trascina con sé e a marcare «uno spostamento spastico della conoscenza dal tritume delle correnti obbligative» (VM 51 e 174) – un irresistibile repertorio: dal «caro padre» dell’Innesto del vaiuolo (v. 40) al «Caro albergo sereno» della Vita rustica (v. 44) al «caro viver mio» del Brindisi (v. 2) al «caro / Nome del suo pastore» della  Primavera (vv. 19-20) sino alle «care immagini» del Pericolo (v. 97) e al «Caro modello» di Alla Musa (v. 71). Senza contare Il giorno, che allinea il «caro / Letto» del «buon villan» (Il mattino, vv.5-6), un «caro nodo» (Il Mattino, v. 370), un «caro fianco» (Il Mattino, v. 1079) e un «caro fregio» (Il Meriggio, v. 382). Non a caso, discorrendone con Arbasino, Gadda definirà Parini, riletto come di consueto in chiave proiettiva «“uno dei primi inventori di una lirica colloquiale narrativa di suprema, seppure cronologicamente barocca, eleganza della nostra poesia, sia nel Giorno sia nelle Odi... Dove è da tener presente che ciò che noi sogliamo chiamare barocco o grottesco (e in questo caso, un grottesco elegantissimo) può essere insito nella cultura letteraria e linguistica del tempo, nelle idee del tempo, e quindi ascrivibile ai personaggi e all’ambiente, e non al caratterizzatore poetico, a chi raffigura”» (L’Ingegnere in blu, Adelphi, Milano, 2008, pp. 57-58).
All’uso antifrastico di caro (che sempre convive con quello mutuato dalla tradizione, come in Approdo alle Zàttere: «già salutiamo la cara bellezza!», CdU 209) il «Robespierre della borghesia milanese» tornerà a fare ricorso per sancire il suo distacco dalla «sacra e buseccherita città della saggezza moraleggiante, consigliante, sentenziante, giudicante» (Lettere agli amici milanesi, pp. 46 e 44): basti pensare alla «cara e cuginesca saliva» di cui i giovani Luciani radunati al concerto sputacchiano «atomuzzi sulla faccia dell’interlocutore cordializzato» (L’A 206; e si rammenti che poco prima cade una citazione dall’Innesto del vaiuolo). Ma è nella Cognizione del dolore – di cui Villa in Brianza è remoto incunabolo – che tornerà a dispiegare tutto il suo potenziale distruttivo, annientando la «cara normalità della contingenza» cui i genitori di don Gonzalo hanno sciaguratamente sacrificato: «Cinquecento pesos! cinquecento: di munificenza pirobutirrica: cinquecento pesos!.... con la maglia rattoppata.... i geloni ai diti.... i piedi bagnati nelle scarpe.... i castighi! perché i diti gelati non potevano stringer la penna.... col mal di gola sul Fedro.... con sei gradi di amor paterno addosso.... e un fumo da far inverdire le meningi.... perché il caro batacchio venisse buono.... buono agli inni e alla gloria.... il batacchio.... a intronare la cara villa, con le care patate, nel caro Lukones.... a romperci i timpani per quarant’anni!... » (CdD 76, 87). E rimarrà sino all’ultimo – il saggio è del 1968 – attributo, inesorabilmente giudicante, dell’istituzione famigliare: «Genitori e figli, liberi e famuli, apre i balconi, apre terrazze e logge la famiglia: la sacra, cara, carissima, e talvolta malauguratamente indispensabile famiglia» (DG 470-71).

giorgio pinotti