capron fottuto
«Con due sorelle in Ariete le quali “non riuscivano in matematica”: ributtate sicchè a piene corna da quel capron fottuto d’un ginnasio, tanto più che a conti fatti “non riuscivano” neanche in latino, e, sembra, neppure in italiano; e, si sospetta, nemmeno in geografia e storia patria» (L’A 90).
La Lola e la Maria Filiberta de’ Marpioni, le due figlie maggiori del ‘disegno milanese’ Quattro figlie ebbe e ciascuna regina, frequentano il ginnasio ‒ denominazione che negli anni Venti di ambientazione del racconto copriva anche l’attuale scuola media inferiore ‒ con scarsi o nulli risultati in ciascuna materia (tanto che dopo i due non iniziali per il loro elenco si rendono necessari tutti gli avverbi di negazione, neanche neppure nemmeno). Le virgolette di «“non riuscivano”» racchiudono un caso di «italiano raggiunto partendo dal dialetto» (così la nota 6 dell’ultimo racconto dell’opera, l’eponimo L’Adalgisa, a proposito di «gòdere», L’A 313), attribuibile alla madre donna Giulia o comunque all’àmbito familiare, come ‘traduzione’ del milanese reussiven nagott (in). È vero che il GDLI nel finale della lunga voce riuscire accoglie, al punto 22., l’accezione del verbo col significato di ‘dimostrare di possedere buone qualità e disposizioni, abilità o perizia; dare buona prova di sé in un’attività, nello studio, in una disciplina scolastica o in genere nella vita (anche in relazione con un compl. di limitazione)’, e ne chiude gli esempi proprio con questo passo gaddiano, ma qui si tratta senz’altro ‒ appunto a norma di virgolette citatorie ‒ di uno dei rèfoli dello «zefiro parlativo» che Gadda vuole riprodurre e satireggiare nel racconto, come esplicitamente dichiara in capo alle note che accompagnano il testo: «L’orditura sintattica, le clausole prosodiche, l’impasto lessicale della discorsa, in più che un passaggio, devono perciò ritenersi funzioni mimetiche del clima, dell’aura di via Pasquirolo o del Pontaccio: che dico, dell’impetus e dello zefiro parlativo i quali dall’ambiente promanano, o prorompono» (L’A 109). Ma torniamo alle due sorelle. Altro che “a pieni voti”! L’implacabile ginnasio quale un irascibile “becco fottuto” le respinge a piene corna: locuzione, coniata sul modello di “a piene mani” e “a pieni polmoni”, che compete al repertorio-1942 dello scrittore. In quell’anno infatti, contemporaneamente al racconto, pubblicato sul numero di gennaio-marzo di «Letteratura», su «La Ruota» di marzo-aprile uscì il saggio Lingua letteraria e lingua dell’uso, dove leggiamo che «certe inimitabili pagine del Cellini … cozzano a piene corna, stupendamente, contro ogni preventivo» (poi in VM 489: e ne deriva che l’unica registrazione della locuzione ricorra sì nel GDLI con questo passo di Gadda, però sotto la voce cozzare). Ma perché variare nell’inattestato capron fottuto il comune insulto tanto milanese quanto italiano becch fottuu (anche nel Porta) e becco fottuto? Per almeno quattro ragioni, si può ipotizzare, sempre che sia legittimo escluderne una quinta, e cioè che anch’esso appartenga allo «zefiro parlativo» dell’ambiente, e dunque altro non sia che una ulteriore ‘traduzione’ in italiano (inesistente) dell’insulto milanese. Prima di tutto, alla maniera gaddiana, per non ripetere passivamente la formula già pronta ma innovarla; e così rendere univoco ciò che non lo era in becco, con la sua polisemia ‒ qui per una volta non funzionale alla perseguita pluralità tipica di Gadda ‒ tra ‘rostro degli uccelli’ e ‘maschio della capra’ (e figuratamente ‘cornuto’): capron invece è inequivoco e si presta benissimo (terza ragione) con la sua immagine e la sua azione a piene corna a confermarsi pertinente alla «due sorelle in Ariete»: e cosa trovare di più emblematicamente cornuto del montone-ariete di un tale segno zodiacale?; e infine, chissà se per suggestione inconscia, il troncamento del primo termine trasforma il sintagma in un calco fonico di baron fottuto, ampiamente attestato nei sonetti dell’amato Belli, tra le cui occorrenze impressiona l’esatto riscontro lessicale in identica giacitura sintattica di «Pe cquer baron futtuto de Scariotto» (476, v. 2), ma presente una volta (baron fottuu) anche in uno tra i più famosi sonetti del Porta, Gh'hoo miee, gh'hoo fioeu, sont impiegaa, al v. 11.
claudio vela