bucio

«Una specie de pilaccia de rame, che de lì a pochi anni sarebbe caduta preda della Patria Immortale belliferante spalla a spalla col tudesco, a un cenno solo del Buce, dell’adorato suo Bucio: ladro di pentole e di casseruole a tutte genti: co la scusa de facce la guerra a l’Inghilterra» (QP 166).

In Eros e Priapo così come nel Pasticciaccio la parola duce è sottoposta a una costante pressione deformante, quasi che Gadda volesse additare, attraverso le molteplici torsioni della sillaba du-, la «sporca bugìa» (EP 168) su cui si fondava l’attribuzione al Priapo Ottimo Massimo dell’appellativo di ‘condottiero’: dal ritmico e forsennato ku-cè che erompe dalla folla ansiosa di «properare, assistere, spengere» la foja del mascelluto (EP 15) al paronomastico buce di QP 170: «Di maschio, in casa sua, non c’era che lui [Santarella]: a non computare la maschia boce del buce, che di quand’in quando gli risonava nelle camere timpaniche suscitandovi tonificatrici risonanze, rivitalizzandogli non meno che a dodici milioni d’italiani la capa». Paronomastico pour cause: la voce (boce nella variante fiorentina e arcaica) è «richiamo sessuale potente … e gravità, per così dire, sull’ovaio alle genti: è mezzo di conquista, è strumento di regno», e il «buccone» (cioè «Colui che fa della bocca smorfie priapesche») – affetto per di più da «incontinenza buccale», «logorrea tribunizia», «flogòsi verbifera» (EP 15, 238, 264) – non poteva lasciarsi sfuggire l’occasione di sfruttarlo (EP 173, 70, 15, 238, 264; Luigi Matt, Invenzioni lessicali gaddiane. Glossarietto di «Eros e Priapo», QI, 3, 2004, pp. 97-182, scheda anche le voci bucchesco ed ebuccare). Sottoposta a un ulteriore spasmo, la boce, veicolo di una micidiale frode, genera poi il romanesco bucio, sulla scorta di un nesso che è di nuovo Eros e Priapo a rendere esplicito: «La menzogna narcissica è, nel procedere della storia, quel che è la dissipazione del singolo nella vita privata. Consiste nel negare una serie di fatti reali che non tornano graditi a messere lo Tacchino, e nel dare come esistenti in cassa una serie di imagini e fantasie che gli titillano al prefato messere il bucio dell’ano del sedere, delle quali vane imagini lui si delizia, con la testa e col culo, come un fumatore d’oppio si delizia portato ad aere nel suo sogno» (164). Ma bucio-duce rinvia a un altro «nero boccaforno», a un altro «osceno» e non meno menzognero fornice (QP 225, 221), quello della maga-tintora Zamira: «Nella bocca senza denti er bucio, nero: da cui, tra verbo e verbo, ella risucchiava dentro la già erogata saliva, con una specie di sibilo un po’ umidiccio dove poi gli erre sguazzavano a ritroso, come chi, buttato là dal frangente, sia travolto indietro dalla risacca» (QP 194). È del resto nella bettola-harem della Zamira, nella sua cerchia, che scaturisce l’irrefrenabile impulso di «vendetta-umiliazione-cupidigia-odio» (PdO 985) da cui originano i due delitti di via Merulana: lì, ai Du Santi, rifulgono i corpi delle «“giovani generazioni”, la di cui moltiplicata bellezza è veduta ed esibita [dall’Io-Fallo] come propria» – da Virginia a Lavinia e Clelia; lì maschi ipersessuati come Diomede Lanciani realizzano il destino delle «categorie … più inculte ed oziose della “compagine nazionale”» (EP 172): riuscire – addobbati dell'insegna della «volizione proterva» (QP 197), ovvero il bastone-fallo da cui, nel Ventennio, la coscienza collettiva è stata «oltraggiata» (EP 11, → stennarello/tortóre) – «maquereaux» e «prestatori del pene a vecchie femmine remunerati» (EP 137). Il Predappiopriapo ha contaminato tutto, la campagna e le giovani generazioni: e di Eros «nelle sue forme inconscie e animalesche» (EP 37) il laboratorio di Zamira è lo specchio fedele.

giorgio pinotti