zoccolacchiare
«Nel dipinto di Gros (Antonio Giovanni, barone di: 1771-1835), la faccia del Re a cavallo è altrettanto piena e puerile: e tra capelli, fiocchi, peli, piumacchî, ne vien fuori, con perianzio pistillone e stami, quasi un maestoso e fantasioso fiore dei tropici, che ha per orchi il volto, con le gote un po’ cascanti: e bamboccio. Il piumacchio centrale del colbacco, di fili candidi e pari, ed eretto e pur docilmente inflesso nell’aere, sgorga da una specie di vagina di altre inimmaginabili penne, a ricciolo, ma tenere e lanose da non dire, tra di struzzo e di papera, e di oca del Madagascàr. Il fioccolone del colbacco è doventato addirittura una carrucola, un paranco doppio di nave, che governa due sottofiocchi. Una pelle di tigre s’è arrovesciata sul cavallo, con la coda che la nasce dal collo, e la testa morta a sbatacchiare sul didietro: ed è un meraviglioso leardo, il cavallo, o anzi un roano pomellato, e balzano da tre. Che batte quasi il Cosmè per l’acutezza cornificata de’ due orecchî in istato di perpetua erezione, e per l’elettrico disprigionato da’ crini, che li travolge, rabbuffandoli, il vento: e per quel zoccolacchiare inane ed aereo della impennata, come l’avesse veduto il serpente. Bianco, degli occhî: vene turgide, al muso: froge soffianti: spuma. Bella, poi, la coscia, e anzi tutta la gamba del Re!: una nota unita, un fuso inguainato, inguantato, dentro la tempesta tigrina della chincaglieria. Sullo sfondo, il pennacchio del Vesèvo» (L’A 259, nota 6).
Tra le ricchezze dell’italiano c’è la vastissima potenzialità di modifica delle parole attraverso il fenomeno dell’alterazione, produttivo di neoformazioni a getto continuo in uno scrittore come Gadda, che di ogni risorsa linguistica a disposizione si appropria compiutamente. Così non poteva mancare al suo repertorio un suffisso verbale derivativo e alterativo quale -acchiare (o -icchiare o -u-), espressivo di una quantità di sfumature semantiche diverse, dalla frequentativa alla diminutiva alla peggiorativa, spesso coesistenti, e incline di suo suono ad applicazioni tanto deformanti quanto perfettamente grammaticali (come nell’impareggiabile battuta di Totò, in Totò e Cleopatra, 1963, «Io me la cavo, modestamente me la cavicchio, me la sono cavicchiata fino adesso e me la cavicchierò ancora», che festeggia l’ingresso di cavicchiarsela nella lingua della comicità italiana). La sola Adalgisa registra – limitandosi ai più connotati – sparacchiare e nasicchiare (quasi un’esclusività di Gadda, ben attestato anche in Eros e Priapo), e soprattutto questo zoccolacchiare d’invenzione: frequentativo di zoccolare, ma con la venatura lievemente riduttiva se non peggiorativa offerta intanto per analogia di significante – Gadda è un maestro nel gestire queste insopprimibili derive di contiguità dell’inconscio linguistico – da verbi di pari estensione pentasillabica come imparacchiare (nella Cognizione del dolore un imparucchiare) e lavoracchiare, di accezione peggiorativa immediata rispetto alla neutra onestà dei tetrasillabi-base imparare e lavorare. Meno neutro invece, in Gadda, zoccolare, che è addirittura parola tematica nella Cognizione, riservata ai contadini-peones assimilati a quadrupedi per i loro rumorosi zoccoli di legno, mentre nelle due occorrenze dell’Adalgisa, entrambe nella forma del participio presente in funzione di aggettivo (zoccolante), è riferito solo a cavalli (L’A 31 e 235). Ma quest’altro cavallo, dipinto da Gros, Gadda lo vede piuttosto zoccolacchiare.
Converrà concentrarsi sull’infisso -acchi-, per riscontrare come nel verbo la sequenza fonica stia a conferma e rilancio di una pluralità di uguali e simili nel giro di poche righe: prima «fiocchi», «piumacchî», «piumacchio», «colbacco», «fioccolone del colbacco», «sottofiocchi», «sbatacchiare» (verbo della stessa categoria), «orecchî», «occhî»; e poi, rintocco unico e finale, «pennacchio»: sul «pennacchio del Vesèvo» si chiude la nota. E non basta. Perché questa del ritratto equestre di Murat del Gros è la seconda ecfrasi della mirabile nota 6 di Al Parco, in una sera di maggio, in quanto la precede quella del ritratto di Murat Re di Napoli (senza cavallo) di François Gérard: e anche lì si susseguono l’«occhio», il «colbacco», il «fioccolone», e già il «piumacchio», e poco più sotto le «chiappe» (del Re). Parole della nota che riverberano parole del testo – siamo nella parte iniziale del racconto – là dove è questione dello «zoccolante mummione», il «cavallo araldico, uscito di mano a Cosmè Tura», che traina la carrozza di donna Eleonora Vigoni: un residuo del passato che compare incongruamente tra la «pedente e sparacchiante meccanica del più triviale novecento», e precipita da «Cosmè» al «piroettante cosmo della Viscosa e delle moto Guzzi, col pericolo di vedersi ribaltato a ogni giro lui e il cocchio e il cocchiere e la padrona, e dama, oh! non più! non più! il Giovacchino a piumeggiare sul suo fastoso galoppo, non più, non più Gérard, non più Gros, a pitturar lui che rampicava nel vento, mostrando il bianco degli occhî» (L’A 235, dove a «Gros» si appicca appunto la nota 6).
Dopo tanto evocativo dispendio di acchi e occhi e affini, che è facile ipotizzare innescato per gemmazione dalla cellula primigenia del nome di Murat, da Gadda assunto nella forma meno comune di «Giovacchino», e dalla sua parentela fonica con «cocchio», è ben conseguente che l’impennata del cavallo bloccata nella tela di Gros non possa che risultare – con immaginazione cinematica che ne definisce il movimento – uno zoccolacchiare, confermato nel suo valore un po’ ironicamente riduttivo dagli attributi che gli competono, «inane ed aereo».
Dunque un semplice riflesso di significanti, anche leggermente arbitrario? Non proprio. Ancora un passo, che Gadda avrebbe fatto di lì a poco in Eros e Priapo, e tutto sarebbe diventato esplicito: va bene il cocchio, va bene il pennacchio, e l’-acchiare, ma il vero referente, qui ancora sotteso (ma di certo sussistente nel virtuale paradigma gaddiano, come prefigurazione implicita che potrà rivelarsi retrospettivamente), è un altro: lì è il «Primo Maresciallo del Cacchio» (EP 15) a pervenire «al pennacchio dell’emiro, – (in napolitano pennacchio è ’u pernacchio)», quello che mentre «Alessandro è arrivato (sic) ad Alessandria col cocchio … lui c’è arrivato col cacchio» (EP 19), lui il «Gran Pernacchio» (EP 20), il «kuce Cacchio» (EP 59). Il cacchio ora era esibito direttamente, non gli serviva più alcuna protezione: per di più trattandosi della “cacchietà” reale e attiva del Duce, non di una rappresentazione pittorica. Ci penserà poi l’incipit della favola 151 del Primo libro delle Favole a collegare al precedente le ostentazioni del novello ma vigliacco «conigliolo» in dichiarato paragone: «Il conigliolo traeva sciabola da dietro e levava gran pernacchio in sul colba, da parere il re Murat» (PLF 48). Anche la sua “cacchietà”, forse più innocua, da «bamboccio», era del resto già stata rilevata: basta a Gadda un grecismo culto, dove assimila il Re di Napoli quasi a «un maestoso e fantasioso fiore dei tropici, che ha per orchi il volto, con le gote un po’ cascanti»: orchi, cioè ‘testicoli’ (che è poi l’etimo di orchidea, se ci si pensa), così che il «piumacchio… eretto» farà da cacchio. La parola non compare, ma c’è.
claudio vela