uovi

«“Questi necrofori, una volta seppellita la sua brava carogna, ci banchettano dentro, felici….”. (Era felice anche lui). “Dénter in del venter, in di büsèkk del ratt….”. Si stirò i baffi. “Poi si accoppiano”, e questa brutta parola fu pronunziata da un Carlo straordinariamente serio; “indi vi depongono i uovi….”» (L’A 281).

Il «povero Carlo», ragioniere con passione entomologica, mescola volentieri puro dialetto, ritmicamente gestito dal narratore («Dénter in del venter, in di büsèkk del ratt» magnificamente unisce un parlato del tutto verosimile a grazie paronomastiche e di qualità fonetico-accentuativa spiccatamente milanesi, dell’ordine, per intendersi, e senza uscire dai confini dell’Adalgisa, «dei dersètt e dei trentòtt e del dirett de Parabiàk», L’A 213), italiano ‘scientifico’ («Questi necrofori»), ma anche, nello stesso giro di frase, italiano di pretese letterarie («indi vi depongono»), e ‒ qui casca il Carlo ‒ italiano che camuffa (ma senza saperlo) il dialetto, come l’impagabile e italianamente impossibile «i uovi»: come se si potesse dire ‘i uomini’, e infatti il Dossi e i pochi altri che declinano uovi al maschile lo dotano comunque del regolare articolo gli, e lo stesso Gadda intitola un capitolo dei LdF Gli ovi di Pasqua e l'etichetta. Ecco che la forza fonetica e morfologica del milanese i oeuv erompe qui incontrastata e basta da sola a rilevare la piega di un assetto culturale: Carlo è Carlo, e nello stesso tempo è il borghese milanese di ambizioni colte ma velleitarie: e come lui con gli spilli i suoi Scarabei, Gadda lo infilza, con due parole.

claudio vela