roca trombazza

«Volle poi che il suo dire fosse quello che veramente ognun dice, ogni nato dalla sua molteplice terra, e non la roca trombazza d’un idioma impossibile, che nessuno parla, (sarebbe il male minore), che nessuno pensa, né rivolgendosi a sé, né alla sua ragazza, né a Dio» (DG 16).

Manzoni, insofferente dell’italiano impennacchiato; campione di una lingua capace, per la prima volta nella vicenda secolare delle patrie lettere, di avvicinare la scrittura alla vita; nevrotico selezionatore di parole, è l’antenato più paradossale ma più credibile di un Gadda che le parole, al contrario, le dissipava: spinto però da un’ansia di verità non inferiore a quella del suo grande modello. Il picco espressivo di una frase tutta rivolta alla lode di Manzoni sta nella definizione dell’opposto, quello strascico magniloquente che acquista concretezza sonora in una locuzione memorabile: «roca trombazza». Le trombe, anche quelle metaforiche, non sono infrequenti negli scritti gaddiani, e le loro apparizioni disegnano perimetri, ora storici ora attitudinali, ricorrenti. Per il primo caso, valgono le «trombe smargiasse del funerario carnevale a cui, nolenti, abbiamo pur dovuto prestare la nostra martoriata persona» (SD 1145); l’epiteto «Trombone trombatissimo e Naticone ottimo massimo» (EP 156); e le «strombazzate dei futuristi tromboni» (RaI 1118). L’attitudine più genericamente altovociante origina invece una forma verbale parasintetica: «trombonò numero» (MdF 30; cfr. RI 589: «trombonò gli ordini»).
L’attributo roca di cui si fregia la tromba letteraria guida però verso un immaginario bellico di matrice classica: al virgiliano «bello dat signum rauca cruentum bucina» (Aen. IX, 474-75) si affiancano, con più netta aderenza, due luoghi della traduzione dell’Eneide di Annibal Caro, entrambi citati da TB: «E che guerra Sonâr le roche trombe» (VIII, 3) e «E già la roca | Tromba ne va per la città squillando | De la battaglia il sanguinoso accento» (XI, 764-66). La pur carsica vitalità del serbatoio culturale virgiliano si conferma grazie a una coincidenza, certo casuale ma non per questo insignificante: un altro grande prosatore del Novecento, Beppe Fenoglio, impiega infatti l’attributo in riferimento al suono della tromba fascista (un caso, dal Partigiano Johnny: «In quella una rauca tromba suonò nel cuore di Mango e nei loro cuori»; il rimando, per Fenoglio, è in Gian Luigi Beccaria, La guerra e gli asfodeli, terza ediz., Macerata, Quodlibet, in stampa). Ipergaddiano è infine il suffisso -azza (basti ricordare le dodici occorrenze, sparpagliate in opere diverse, dell’alterato facciazza), che conduce alle frequentazioni maccheroniche dello scrittore, delle quali è grandioso compendio una citazione da Folengo, incastonata nel saggio Fatto personale … o quasi: «Dum Pomponazzus legit ergo Perettus, et omnes | Voltat Aristotelis magnos sotosora librazzos» (VM 498).

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