punta

«“… e lui, er sor coso, l’ho schiaffato in der cassetto quello là in fonno isolato p’annà ar cesso … che ce stanno insieme tanti de queli corni de corallo che si gnente gnente je pijasse la fantasia de volemme jettà la bottega… a me, jettamme? sì, stai fino: vorebbe vede, povero fijo! È come un cappone in mezzo a tanti galli!... ma co la punta bona, je lo dico io”» (QP 133).

Parla l’orefice Ceccherelli, ben deciso ad annullare il tradizionale influsso jettatorio dell’opale (per prudenza neanche lo nomina, «er sor coso», partecipe com’è, si potrebbe dire professionalmente, della superstizione verso la sciagurata gemma nel momento stesso in cui la nega, «“sì che me ne buggero de tutte ste superstizzione de la gente”», affermazione a cui viceversa fa subito seguire il dettaglio degli antidoti messi in campo per proteggersene) che Liliana Balducci gli aveva portato perché lo sostituisse con un diaspro da regalare al cugino Giuliano Valdarena prossimo sposo. Un influsso già feralmente attivo sullo zio Peppe, come racconta il narratore poche pagine prima: «Fu precisamente di un cancro al fegato, concomitato da un confratello al duodeno, che il portatore di opale si trovò ridotto a soccombere» (119). Dunque il malfatato opale viene circondato da una quantità tale di corni di corallo da renderlo inoffensivo e inerme: «“un cappone in mezzo a tanti galli!”». Dice bene il Commento: «tradizionali amuleti portafortuna, i corni di corallo annientano qui il potere negativo dell’opale, anche perché dotati di potenza virile, metaforicamente rappresentata da forma, durezza e colore, in opposizione al candido opale ovoidale, associato qui al cappone, galletto castrato in età giovane» (358). Ne consegue però da una parte la difficoltà di applicare alla gemma la specificazione «“co la punta bona”», come pur dubitativamente propone di interpretare poi lo stesso Commento: «l’opale è pietra tagliata a cabochon, quindi liscia e tondeggiante: qui punta ha forse valore figurato di ‘aculeo’. Nella gemmologia antica il termine indica una pietra con cima acuminata ed è impiegato soprattutto per il diamante» (ivi, anche con una citazione dalla Vita di Cellini riferita appunto al diamante); e dall’altra invece, in esatta pertinenza con la loro potenza sessuale, il logico riferimento di punta bona ai galli: altro che castrati capponi! così come simboleggiano con la loro stessa forma i corni di corallo (trasformazione delle antiche rappresentazioni falliche), la punta evoca il fallo, e bona il suon buon funzionamento: e non importa che gli organi riproduttori del gallo non siano propriamente un pene, qui il Ceccherelli non fa sfoggio di tecnicismi veterinari ma si attiene a una salda accezione non solo romanesca (il GDLI registra punta col significato di «Membro virile (e, per sineddoche, glande)» con citazioni da autori antichi tra cui anche il non peregrino Bandello), che per l’autore Gadda ha in più il solido avallo dell’amatissimo Belli: dal v. 11 del son. 882, La schizziggnosa: «Un giorno è lla Madonna de l’assunta: / Un antro hai sonno, e ssò bbuscìe de pianta: / Un antro er coso mio tiè ttroppa punta» (che Gibellini, di cui seguiamo l’edizione del poeta nei Millenni Einaudi, parafrasa ‘il mio membro è troppo appuntito’); al verso finale del son. 1200, Lo sposalizzio de la Madonna: «Nun dicheno però cch’er vecchiarello / Accant’a cquer pezzetto de pasciocca / j’arifiorì la punta ar bastoncello»: che vira in senso osceno la leggenda della fioritura del bastone di san Giuseppe (leggenda che diede a Gadda lo spunto diretto per una delle sue favole rimaste inedite, con la stessa coloritura oscena: «La verga di Giuseppe ebbe fioritura liliale. Altre d’un garofolone che non ti dico», Opere IV 955).

claudio vela