orror giallo e feroce delle cose furibonde
«Il rabido rinculo degli affusti, il pronto ricupero, le vampe laceranti la notte, la sùbita impennata di qualche mulo nevrastenico nello schianto e nel lividore improvviso, i gargarismi lontani e immortali delle autocolonne, fino all’alba! Su su per le spire infinite delle rotabili, dalla tenebra verso i crinali! Spiando l’ambiguità de’ culmini puntuati di fredde stelle. Gli autocarri, colmi delle loro bombarde come di scrofe gravide, con una bandierina rossa a triangolo, a lato del conduttore: raggiunti, a volte, dall’orror giallo e feroce delle cose furibonde» (CdU 150).
Il complicato incanto del passo, dal racconto Dal castello di Udine verso i monti («L’Ambrosiano», 18 dicembre 1931, poi – queste righe rimaste invariate – nel Castello di Udine, 1934) può essere scomposto in un repertorio di stilemi del Gadda modernista: maculatura metaforica, sintassi nominale, gerundio assoluto, densità di astratti culminante, in clausola, nel modulo sostantivo + specificazione. Caso-manifesto dei procedimenti astrattivi gaddiani, la locuzione orror … delle cose … va inquadrata in una serie di dati, che non esauriscono, ma preparano l’interpretazione. Alla parca chiosa d’autore – assente in rivista, e immessa nel volume solariano (i conduttori dei carri temevano «la repentina tempesta del grosso fuoco», CdU 155) – va affiancato un decisivo affondo genetico: la cellula originaria dell’immagine si trova (come già segnalato da Raffaella Rodondi nella sua Nota al testo, CdU 808) nel Giornale di guerra e di prigionia: «Ancora devo notare alcune cose: il giorno 7 sera due shrapnels da 152, con fumone giallo ambra e un fracasso bestiale, sulla pendice del M.te Barco. Stavo riponendo nel cofano la roba messa al sole a prender aria e inzuccherandola di naftalina: rimasi male. Perché ricordo il fumo giallo sul monte? Perché anche l’immagine esterna, pittorica dell’episodio possa esser risuscitata» (174). Giallo è dunque il «grosso fuoco», o fumo, dei proiettili, sinesteticamente trasposto sul loro effetto di orrore. E ciò che l’intero passo restituisce è infine la simultanea epifania di rumore (schianto, gargarismi), colore (rossa, giallo), movimento (rinculo, Su su, verso), reazioni degli animali (impennate), degli uomini (orrore, appunto), delle cose (furibonde, o «scosse furiosamente»: cfr. GDLI ad vocem, con questo esempio gaddiano). A sua volta la formula che rivoluziona i pesi sintattici del canonico gruppo nome-attributo, promuovendo a fuoco espressivo la qualità (non ‘cose orrende’, ma ‘orrore delle cose’), riconduce a una vulgata protonovecentesca che vanta modelli molteplici, svarianti dalla poesia futurista (Luciano Folgore: «freschezza di una tinta verde»; Ardengo Soffici: «amaranto del sole») a quella ungarettiana («nettezza di montagne»). Il modulo è d’altro lato particolarmente attivo in questo racconto, con esiti più o meno accesi: «eccelsitudine delle lor nebbie», «cecità della nebbia», «grigiore … dell’Alpe» (CdU 148, 149, 150). Presenze ben spiegabili se, come ha mostrato Roscioni (La disarmonia prestabilita. Studi su Gadda, Einaudi, Torino, 1969, pp. 13-15), il tipo astratto + genitivo altro non è, per Gadda, che un precipitato grammaticale della deformazione che il soggetto conoscente imprime sull’oggetto conosciuto: il primo piano assegnato alla qualificazione invece che al qualificato sorprende l’attimo del processo percettivo, è marchio dell’appropriazione che l’io esercita sul mondo. La ricorrenza del di preposizionale nell’intero passo realizza inoltre frequenti processi, a minore impatto ma analoghi, di sovradosaggio delle qualità, di nuovo anteposte agli agenti («impennata di qualche mulo», «gargarismi … delle autocolonne», «spire … delle rotabili», «ambiguità de’ culmini»). Un’ultima sosta al piano della tessitura linguistica va riservata al nome cose. Deve segnalarsi, per partire, un’apparizione dell’esatto sintagma cose furibonde nel racconto Santippe. Piccolo romanzo antico e moderno («La vuole afferrare per le trecce bionde, le vuol dare per lo core una saetta, e altre cose furibonde», sulla «Nuova antologia» nel 1913, in volume nel 1919) di Alfredo Panzini, autore ben presente all’Ingegnere, se non altro come modello negativo («tono … non panziniano» è uno dei comandamenti autoimpartiti che figurano nel Cahier d’études, RI 417). Ma più importa sottolineare che di cosa, emblematica parola passe-partout, sembra ignorata la tradizionale imputazione di genericità. Al contrario, il più incolore tra i sostantivi del vocabolario marca, in Gadda, picchi di peculiare tensione stilistico-speculativa. Come accade quando, da una pagina della Cognizione del dolore, si leva «Un clàcson, dalla camionale: e il vuoto delle cose», 132). La specifica locuzione «orror giallo e feroce delle cose furibonde» ebbe la ventura di un doppio, doppiamente autorevole, sistema di chiose. A Giacomo Devoto (Studi di stilistica italiana, in «Annali della R. Scuola Normale Superiore di Pisa», 1936) che, nella sua analisi del Castello di Udine, denuncia un eccesso di formule astratte, e taccia di genericità le perifrasi con cosa seguito da un aggettivo, Gadda risponde con una scintilla psico-grammaticale che accende il laboratorio, e la pagina che ne discende, di luce quasi accecante: «L’inconscio … denuncia pertanto [le cannonate] come fatti non ancora nominalizzati … obietti o fenomeni pre-nominali: gialli, feroci, furibondi» (Opere III, p. 821). L’ancora sconosciutissimo autore era consapevole di aver superato l’immediatezza sensibile di marca futurista; sapeva insomma di avere spinto la soglia del dicibile a un ulteriore livello di profondità: scolpite sulla pagina, le sue parole restituiscono non la percezione dell’evento, ma l’avvertimento del pericolo, uno stato istintivo di allerta ancora senza nome, un’increspatura dolorosa sul crinale della coscienza. Quanto solo un grandissimo può chiedere alla scrittura.
mariarosa bricchi