impisciare/scacazzare
«Non anco Provolone si ritrovò allo speco, e n’ebbe nuove al cantone e le male grotte vi lesse, che nel fioco lume di chel molto puzzo e’ si studiò ringrugnare la su’ grinta: ma un vipistrello, qual di colà era cive, andavagli pencolando contr’al naso e così fracido e molle ad ogni botta da gli parer sorco balestraio: e i di lui cognati, da ultimo, la dogal cuticagna l’impisciavono, e scacazzavono il capo calvo, detto Ginocchio e Marchese delle Caminate Testa di Morto, ch’egli era. Per che Grugnone Sanguemarcio, messe le mane alla cintola come a tener le trippe che li davano di fuora e bilanciando sé in su le piote e naticando indrieto da parer lo si vedere all’esercizio del gran dòndolo, in fiera: “Poppolo vespertillone” ‒ principiò bociare: et ebbe nuove cacche in sul naso. Tantoché smagato e’ si tacque: e dal culo, sanza pure v’intendessi dar fiato, quasi per divin decreto gli trombettò perepepè» (PLF 35-36).
La favola 111, con la quale prende avvio il folto ciclo antiducesco (si veda il bel commento di Claudio Vela nell’edizione Mondadori, Milano, 1990, pp. 163-65), sprofonda il Priapo Ottimo Massimo (EP 49) in un tetro e fetido scenario infernale, dove a beffarsi atrocemente delle sue velleità di arringatore di folle e della sua mimica tracotante sono degli stizzosi pipistrelli che non esitano a imbrattargli di orina (impisciare, con la desinenza -avono del fiorentino; il GDLI allega, per questo raro verbo, un passo dell’Aretino) e di escrementi (scacazzare, usato transitivamente; in EP 246 Mussolini è «Scacazzone giacomo-giacomo») la testa calva. Vituperante immagine che Gadda esempla su Orazio, e in particolare sull’VIII satira del I libro (riassunta con verve indiavolata in Il latino nel sangue, DG 291-92): un Priapo ligneo, piazzato «tra Esquilino e Quirinale» (DG 291) a terrorizzare ladri e uccelli, confessa di non riuscire invece a sbarazzarsi di fattucchiere come Canidia e Sagana e, a riprova dei notturni, orrendi riti magici cui ha assistito, proclama: «mentior at siquid, merdis caput inquiner albis / corvorum atque in me veniat mictum atque cacatum / Iulius et fragilis Pediatia furque Voranus» (vv. 37-39). Senza contare che le nefandezze di cui è stato testimone hanno avuto inopinate e scatologiche conseguenze: «nam, displosa sonat quantum vesica, pepedi / diffissa nate ficus …» (vv. 46-47), tradotte dal dantesco «ed elli avea del cul fatto trombetta» (Inferno, XXI, v. 139). Da questa satira proviene del resto, come indica una nota d’autore, il «bastoncello ficulno» (CdD 182, e cfr. i vv. 1-3: «Olim truncus eram ficulnus, inutile lignum, / cum faber, incertus scamnum faceretne Priapum / maluit esse deum …») che il falegname Poronga (argentinismo per ‘pene’) usa per andare in cerca di funghi nella Cordillera maradagalese (si veda il commento di Emilio Manzotti, Einaudi, Torino, 1987, p. 402). Ma il Poronga-Priapo è anche, guarda caso, artefice di «sgabelli» (= scamnum) (CdD 182), proprio come il «faber» oraziano.
giorgio pinotti