foje

«“Fu lei, poverina! lei: io non ci pensavo davvero, a nascondere: fu lei che mi disse: bada, Giuliano, deve rimaner tra noi: un nostro innocente segreto: er segreto de li cugini... come nei romanzi! Il segreto della bellezza, non siamo belli, noi due? della felicità sperata e non avuta. Che sto dicenno, Dio mio! e se coprì la faccia co le mano. Tu la felicità ce l’avrai. E allora il segreto... fammece pensà, il segreto de du anime bone: che in un mondo un po’ mejo de questo qua... mbè avrebbero formato altre anime. In questo, invece, così com’è (dottore, l’avesse veduta! in quel momento!), dovremo annà chi de qua chi de là, come delle foje quanno ch’er vento le strappa”» (QP 129-130).

L’immagine delle foglie strappate dal vento, con cui Liliana rappresenta a Giuliano Valdarena l’immedicabile infelicità del suo destino, è sì «di antica tradizione, già classica e dantesca, a indicare separazione e partenza» (Commento, p. 343, e sono anche allegati passi leopardiani e pascoliani), ma acquista in Gadda un surplus di senso, una singolare densità, che possiamo cogliere se solo torniamo alla redazione di «Letteratura» (1946), dove, in luogo di «quanno ch’er vento le strappa», figura «quando ritornano al nulla…» (QPL 389), allusione – fin troppo lucida e tecnica, in bocca a Liliana – a quel «rientrare nell’indistinto» antitetico alla «mania di differenziazione da cui è affetto l’universo, vera idea fissa che vuol ‘provare ogni esperienza, assaggiare ogni frutto, anche apparentemente malefico’» (MM 640, 694; e si veda anche la diagnosi di don Ciccio in QP 114: «Quel buttare, quel dissipare come petali al vento o come fiori nel ruscello tutte le cose che più contano, le più tenute a chiave, le lenzuola!  … finirono di rivelargli … l’alterazione sentimentale della vittima: la psicosi tipica delle insoddisfatte, o delle umiliate nell’anima: quasi, proprio, una dissociazione di natura panica, una tendenza al caos: cioè una brama di riprincipiar da capo: dal primo possibile: un “rientro nell’indistinto”»). L’immagine evoca dunque una «violenta separazione dal tessuto della gente» (si veda il commento di Emilio Manzotti alla Cognizione del dolore, Einaudi, Torino, 1987, p. 373): un lacerante distacco dalla «catena delle cognazioni» (QP 155) che coincide con il richiamo della Tenebra (come del resto in DG 122: «Il capitano Casati, che la guerra del mahdi confinò dentro le foreste del tropico, foglia spiccata di sull’albero di Brianza prima ancora dall’Africa che dalla morte» e in EP 114: «E voler che vadano tutti i giovani a la terra, come divelte foglie dal turbine quando ancora primavera le sta buttando»). Ci addita questo significato anche un illuminante passo dell’Introduzione a «I Markurell» di H. Bergman, del 1945, dove la sosta sulla terrazza dell’osteria L’Alveare di zia Rüttenschöld «raduna per il commiato i sentimenti e i pensieri che legano un’anima alla pluralità degli oggetti e dei simboli topici e, per il loro tramite, alla collettività dei cittadini: e quest’anima è già sul punto di spiccarsi, come stanca foglia ad autunno, dall’albero delle generazioni verso la solitudine del nulla» (SD 927-28). Oltre a Liliana, nimbata da una «nobile malinconia» (QP 17), andrà ascritta alla confraternita delle «anime sbagliate» (CdD 51) anche Elsa, adorna della «stola invisibile di malinconia» e segnata dal medesimo, doloroso senso di inappartenenza: «Lei, lei sola, era stata strappata via dalla comune speranza, divelta dal credere: come stanca foglia il vento dalla chioma tempestosa del faggio» (L’A 250, 205), e ancor più esplicitamente, nell’incunabolo dei “disegni milanesi”: «Lei, lei sola, era stata strappata via dall’anima comune, come la stanca foglia il vento, dalla chioma tempestosa del faggio» (Fu 111), dove l’«anima comune» è precisamente quella «entelechia» che sospinge la tribù verso un unico fine e ne determina l’unanimità (L’A 250; si veda in proposito Emilio Manzotti, Una «notte di luna», in Gadda. Meditazione e racconto, a cura di Cristina Savettieri, Carla Benedetti, Lucio Lugnani, ETS, Pisa, 2004, pp. 159-204, in part. pp. 198-99). Vale, per Liliana come per Elsa, quel che nel 1957 Gadda scrive a proposito del celibe e malinconico commendator Angeloni e dell’epoca «sitibonda di prole» che fa da sfondo al Pasticciaccio: «In un mondo in cui bisognava “credere” per forza era proibito essere malinconici» (VM 121).

giorgio pinotti