detenere

«“Zitta, mo,” le aveva detto il giovane in un tono cupo di minaccia, guatandola ancora, andandole quasi col viso sotto il viso. Parevano d’una tigre, ora, quegli occhi: l’anima deteneva la sua preda: l’avrebbe difesa a qualunque patto» (QP 32).

Il «bel giovane», «toso franco» (QP 29) che aggredisce in casa la Menegazzi rapinandole ori e gioielli, oltre che il portafoglio, già subito la fissa – nel referto della derubata al commissario Ingravallo – con «“uno sguardo implacabile, du oci fermi” … “come un serpente”» (QP 31). Come ipnotizzata («“Mària Vergine! El me gaveva ipnotisà…”», QP 31), la povera contessa non può reagire all’intimazione («“Zitta, mo,”») di quegli occhi, che ora, in un climax di terrore, sembrano occhi di «tigre»: di chi si è impadronito con assoluta volontà di possesso (tutta la sua «anima» è quella incoercibile volizione) della sua «preda», ori gioielli soldi, preda ‘detenuta’ – come acquisita da una volontà invalicabile certa delle proprie ragioni di forza –, non cedibile, ferinamente difesa da ogni opposizione. E in quella circostanza di pauroso sgomento la vittima stessa si trova metonimicamente “detenuta” da quel viso incombente, senza alcuna possibilità di reazione e di fuga. Economia dei mezzi gaddiani: dal comune “tenere” al raro “detenere” (nelle forme verbali diverse dal participio passato, presto sostantivato) basta un semplice de- a scandagliare la profondità psicologica di una condotta criminale (si faccia la controprova operando la sostituzione: *“l’anima teneva la sua preda” perde molto di densità); mentre nello stesso tempo il verbo sembra anche rinviare, con sottile parodia, all’accezione amorosa di detinuit nell’amato Orazio: Carm. I 33, 14, «grata detinuit compede Myrtale», ‘mi tenne con dolci lacci Mirtale’: le metaforiche catene delle «rasentate ma non patite servizzie» che la Menegazzi paventava-desiderava? (QP 38).
Propendiamo dunque a rovesciare l’interpretazione che del «passo di ardua decifrazione» propone il Commento: «‘gli occhi [della Menegazzi] parevano ora [nel momento del racconto] quelli di una tigre: l’anima [della donna] teneva la sua preda [il ricordo di quanto subito]: l’avrebbe difesa a ogni costo’; la contessa non è disposta per nulla al mondo a diminuire l’importanza del rischio che ha corso’» (95). Troppa grazia per la contessa veneziana, tremebonda/anelante nella vedovile solitudine dell’appartamento di via Merulana: lo sguardo di tigre non può che essere uno sguardo altrui, quello degli «oci fermi» su di lei. E lei non può che subirlo; e volerlo, quasi.
(In questa voce Giorgio Pinotti ci ha messo del suo; a lui la nostra gratitudine).

claudio vela