birlo

«Coi compagni mi trovo male, specie con Maini, grasso, flaccido, brutto, sdentato, Banca Commerciale, con Cresta, con Stagni. – Non posso vedere quella carogna Don Abbondio d’un maggiore, e anche il cap. Bruno l’ho ben giù dal birlo» (GGP 57).

Ben prima che il Gildo osservasse che senza la guerra i carabinieri «chissà fin quando avrebbero seguitato a rimestar la polenta, proprio come i bambini che “ci colgono gusto a star lì apposta”» (M 474; traduzione letterale del milanese catà güst, chiarisce una nota); ben prima che Bruno sfiorasse «la mezza lingera domenicale ferma davanti il cinema Ticinese alla Vedra, a tirare il ròccolo a una qualche ragazza» (L’A 54; tirà el ròccol, ‘irretire, circuire’); ben prima insomma che l’«italiano raggiunto partendo dal dialetto» (L’A 313) irrompesse sulla scena della Meccanica e poi dell’Adalgisa come irresistibile ingrediente espressivo, nei taccuini di guerra Gadda già estraeva dal proprio idioletto forme splendidamente mescidate: andà giò del birlo vale infatti, a norma di Cherubini, ‘scadere di grazia’. E non si tratta di un caso isolato, giacché in Val Camonica come sull’Altopiano dei Sette Comuni molte altre voci e locuzioni verbali forgiate sul milanese ‒ nostalgica e affettuosa evocazione del clima e dell’aura «di via Pasquirolo o del Pontaccio» (L’A 109) ‒ affiorano alla mente del sottotenente Gadda: «Stamane, dopo aver barbelato tutta notte nella fredda camera dell’ufficiale di picchetto, mi levai tardi con lamentela del maggiore» (GGP 61; barbellà, ‘rabbrividire’ [Cherubini]); «Un fango, una baùscia, un impiastro da non dire» (GGP 63; bauscia, ‘bava’ [Cherubini], ma qui varrà ‘poltiglia’); «Poi, finita l’istruzione, venne a trovarmi Stefano Castelli, nella mia cameretta, e chiacchierammo a lungo insieme: allora il mio spirito si sollevò un poco, nella bagolata e nelle risate» (GGP 74; bagolada, ‘il raccontare cose esagerate, stravaganti’ o anche ‘chiacchierata’ [Banfi e Angiolini]); «la sua faccia è sconvolta da un’apprensione in cui non è nulla della tristezza di natura affettiva e sentimentale, ma in cui leggo invece la scaggia tripla» (GGP 141; scagg, ‘paura’ [Cherubini]); «La circolare dice che non si dovranno mai, dai Comandi di grandi Unità, sostituire le sezioni organiche dei battaglioni che andassero a ballìno con sezioni dei reparti, ma che si dovrà far richieste, per il rimpiazzo, al Comando supremo» (GGP 159; andàa a balin ‘andare in fumo, svanire’ [Banfi e Angiolini]). Nessuna di queste forme di milanese italianizzato verrà ripresa nelle opere successive: fa eccezione il «mangiare proprio tutto di noi milanesi che nelle feste natalizie ne facciamo veramente strage» (Banfi), ovvero il panattón («Il collega Cavalli, che scappò a Milano, è tornato con un panattone: e con una lettera della mamma, che mi fece gran piacere», GGP 58), che in Eros e Priapo definirà il più vistoso e sgraziato connotato fisico delle Giovani Italiane, stolidamente irreggimentate «dietro alle fanfare del rincoglionito Quirino»: «Una pluralità ecolalica andava andava con vispoteresoidi panattoni mal tegumentati dalla vispa gonnella, in pieghe e nera, sculettando e gambacciando “a passo marziale” per via dello ’Mpero (de i’ Cacchio)» (EP 62; ma si veda anche QPL 345, dove panettone per ‘sedere’ lascerà poi posto a mandolino: «Ereno passati i bei tempi… che per un pizzicotto in der panettonea na serva, ar giardino zoologgico,… c’era na brodata de mezza pagina»). Un’accurata analisi dell’impiego del dialetto milanese è offerta da Paola Italia, Glossario di Carlo Emilio Gadda ‘milanese’. Da «La meccanica» a «L’Adalgisa», Edizioni dell’Orso, Alessandria, 1998, pp. c-cxxvi.

giorgio pinotti