arfasatti
«Operando alcuni de’ molti indagatori nell’analisi del dato … alcune idee fisse, se talora di nobilissima origine, hanno qua e là contristato la loro mirabile attività … come certi generali che si incaponiscono in un certo lor cánone … Così perdono le battaglie, dopo di che incolpano i generali avversari da cui sono stati battuti di ‘non conoscere le regole della vera strategia’, della musica classica insomma: essere degli arfasatti e dei pervenuti della scienza strategica: insomma dei cattivi improvvisatori e dei dilettanti volgari» (MM 630).
«Arfasatti e … pervenuti» sono qui i generali dappoco, volgari raggiratori privi, per inesperienza (il calco pervenuti, da parvenu), delle competenze necessarie. Il toscanismo arfasatti registra occorrenze in diversi testi gaddiani (dalla Meccanica, ai racconti, alla Meditazione milanese). Le ragioni della predilezione sono evidenti: la parola vanta un pedigree, in particolare cinque-seicentesco, che non poteva non ingolosire il nemico confesso di ogni grigiore linguistico. Sull’anti-gaddismo di Gadda – altrettanto avverso alla replica inerziale di sé stesso – illumina tuttavia una variante documentata dagli autografi del saggio Le belle lettere e i contributi espressivi delle tecniche (VM). Per definire coloro che, padroneggiando il vocabolario di una tecnica, ne hanno ricavato proprietà linguistica, Gadda ricorre dapprima al nome arfasatti («E questi arfasatti, vivendo lor vita, le dàn luce e colore»; VM 488), e lo corregge quindi in «pratici». La scelta originaria trova forse appoggio in una nota del TB: «L’uso vivo, in che fu sentito da me, è d’uomo più goffo che semplice nelle maniere, ma che potrebbe del resto essere anche d’ingegno». L’ingegno, appunto, di chi ha rappresentato il mondo attingendo alle parole dell’esperienza. Ma il più diffuso significato solo negativo di arfasatti – lo stesso che risulta dagli altri impieghi gaddiani – porta con sé un rischio: scivolare nel dominio delle tanto aborrite «espressioni sbagliate», false o posticce, di cui dilaga il contagio. E lo scrittore rinuncia infine a un termine che non si incastona perfettamente nella necessità del momento. Vince, e non poteva essere altrimenti, il demone dell’esattezza.
mariarosa bricchi